Leggo, dalle pagine di un romanzo ucronico fantasioso e avvincente, che la Mercedes è tornata in Formula 1 come Costruttore dopo 55 anni di assenza e che ha vinto una serie di mondiali da primato. Eguagliando quelli rastrellati dalla Ferrari nella striscia inarrivabile 1999-2004.


L'autore di questa piacevolissima, ma dichiaratamente fantascientifica lettura, narra che tra i principali protagonisti dell'epopea c'è, pensate, un uomo di colore di nome Lewis, nato in un'anonima periferia inglese e per giunta cresciuto insieme a un fratello colpito da paralisi cerebrale infantile.


Prosegue, il nostro scrittore, raccontando che a questo Lewis, già diventato il primo Campione del Mondo di Formula 1 di colore oltre che uno degli sportivi più pagati del globo, da un po' non basti più l’idea di battere tutti i record della sua disciplina – ivi compreso il più sacro di tutti, i sette titoli e le 91 vittorie di Michael Schumacher.


È come se lui avesse, maturando, acquisito sempre più coscienza del suo posto nel mondo e della potenza della sua fama.


Un brutto giorno, mentre Lewis e gli altri piloti aspettano di tornare a correre – in questo mondo chiaramente immaginario l’economia, gli sport, i viaggi, tutto è stato bloccato per via di un virus che ha ucciso mezzo milione di esseri umani, figuratevi – capita che in America la polizia ammazzi un uomo di colore durante un banale arresto.


È l’ennesima violenza contro i neri e per Lewis, ormai uomo consapevole e celebrità impegnata, è la goccia che fa traboccare il vaso. Dà sfogo pubblico a tutta la sua rabbia e arriva a scendere in piazza – ricco e famoso com’è, ma chi glielo fa fare? – condividendo lo slogan dei manifestanti di tutto il mondo: black lives matter, inneggia.


E qui viene la parte più incredibile: il romanziere, che forse si è lasciato prendere un po’ la mano, scrive che la squadra di Lewis, la Mercedes, decide di condividere (cavalcare, mi ha corretto un amico cinico, che però conosce bene gli squali delle corse e che considero il mio alter ego) la sua battaglia e di cambiare con un gesto eclatante il colore delle macchine e delle tute, passando dallo storico argento al nero.


Ora, non chiedetemi come prosegue la trama perché, devo confessarvelo, non ho ancora letto le ultime pagine. Ma non troverei incredibile, date le premesse, se l’eroe letterario Lewis, alla prima vittoria, salisse sul podio e alzasse il pugno chiuso, come avevano fatto prima di lui quegli atleti afroamericani alle Olimpiadi di Città del Messico dell’anno fatidico 1968, entrando nella storia.


Anche se non so ancora come andrà a finire il primo campionato nel mondo del dopo-virus, una cosa ve la posso anticipare: queste frecce che un tempo erano d’argento e che nel libro già tutti chiamano “Black Arrows” per strada, ai bar, nei tg, hanno già vinto. Perché hanno inciso un messaggio più rilevante e quindi un segno più forte degli altri. Nella storia dello sport, ma soprattutto nella testa della gente.